Dialoghi con Paulo Freire
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Dialoghi con Paulo Freire
Rapporto tra la pedagogia degli oppressi e il contesto italiano
Dipartimento di Scienze dell’Educazione – Università degli Studi di Bologna
Intervista collettiva con insegnanti ed operatori pedagogici
Bologna 23/01/1989
Nel nostro movimento della GiOC (Gioventù Operaia Cristiana) noi cerchiamo di realizzare un’esperienza educativa liberatrice che chiamiamo coscientizzazione e che ha dei punti di riferimento con la metodologia di Freire. Una della critiche più diffuse oggi è che nelle società industriali o post-industriali questo tipo di schema oppressi-oppressori sia inadeguato e vecchio, non serva più. Molto spesso le critiche che vengono fatte a questo schema educativo che tenta di esprimere una proposta critica rispetto alla società è che non tiene conto della complessità che oggi è presente nella nostra società (ecco detto molto schematicamente e molto brutalmente) però è una obiezione di fondo che io ritengo abbia alcuni elementi giusti, ma che ne trascuri molti altri. Mi interesserebbe sentire da Freire qual è la sua opinione a questo riguardo e quali suggerimenti ci può dare.
Io penso che anche quando la complessità delle società altamente modernizzate dal punto di vista capitalista, anche quando questa modernità esige strumenti di analisi raffinati e sempre più raffinati, arriva un momento nel quale, durante l’analisi stessa, ci si trova davanti alla dialettica oppresso-oppressore. Si arriva nel momento in cui ci si trova di fronte ad una classe che chiamiamo dominante e ad una dominata, di fronte alla cultura dominante ed alla cultura dominata, al linguaggio che domina ed al linguaggio che è dominato e questo accade indipendentemente dalla complessità della società.
Io vorrei sapere da voi se pensate che ci sia una società più complessa di quella americana dal punto di vista capitalistico. Quello che si può chiedere da un’analisi della società americana è che si vada più in là dell’uso di criteri prettamente riferiti alle classi.
Tuttavia nessuno potrà negare che nella società americana c’è un dominatore ed un dominato. Pertanto penso che un adeguamento degli strumenti teorici di analisi non elimina la presenza del dominio e del dominatore e del dominato sia che chiamiamo il dominatore capitalista borghese sia che lo chiamiamo qualsiasi altra cosa.
A me non interessa qual è il nuovo nome che si va a scegliere, mi interessa la natura, l’essenza della relazione. Perciò credo che l’essenza dell’attuale società stia in una relazione dominatrice con sofisticazioni fantastiche, ma le sofisticazioni non ne mutano la natura.
In Italia, per esempio in città come Bologna, con difficoltà si riesce a capire dove si nasconde la dominazione, l’amministrazione della città non copre tutto il potere; c’è un governo progressista, ma questo governo non riassume in sé la totalità del potere, ossia la dialettica oppressore-oppresso continua. Io penso che se Marx fosse vivo si starebbe occupando di questo problema degli strumenti per un’analisi oggettiva della situazione attuale.
E’ evidente che questo colloca l’educatore o l’educatrice progressisti, io direi meglio che questo colloca qualsiasi educatore critico sia esso progressista oppure no davanti alla necessità di essere vigile circa l’applicabilità di pratiche e teorie in contesti differenti da quelli in cui si sono originati.
Domanda: In che modo ritieni che la pedagogia della liberazione predicata in una società dove l’oppressione è evidente sia possibile applicare anche in una società dove esiste l’oppressione, ma è molto più raffinata?
Bene, la tua domanda ci porta alla questione dei metodi di lavoro, alla questione delle mediazioni. Vorrei raccontare a questo proposito un episodio che chiarirà quel che penso. Nel 1971 io fui invitato da un gruppo di marxisti e di cristiani tedeschi di Francoforte a trascorrere un fine settimana discutendo questo tipo di problemi. La tematica era questa; vedete come certe tematiche non sono affatto superate. Le cose sono superate quando vengono risolte, non sono state risolte, perciò…
Coloro che mi avevano invitato erano degli intellettuali molto eleganti, educati, teorici eccellenti.
Fecero un’eccezione, invitarono un operaio spagnolo che parlava bene tedesco e faceva da interprete. Nel mezzo della riunione, durante la pausa per il caffè l’operaio mi parlò in spagnolo per cui i tedeschi non capivano e mi raccontò le cose seguenti.
Paolo, un anno fa, io e quattro amici miei ci siamo riuniti per fare un programma di educazione politica che volevamo offrire agli altri operai spagnoli. Con molto senso d’umorismo mi disse: “Abbiamo fatto esattamente proprio come voi Professori fate” – poi continuò dicendo – “Abbiamo organizzato un programma senza consultare gli altri”.
Il giorno dopo invitammo gli operai al corso, ma loro si dimostrarono assolutamente contrari e dissero che non erano interessati al corso; non importava loro nulla di politica. Tornammo a casa la sera tutti e cinque per analizzare quello che per noi era stato il nostro insuccesso. Decidemmo di non arrenderci. Dal giorno successivo ci saremmo dati da fare a ricercare (ma non come siete abituati a fare voi professori) ciascuno nella propria fabbrica, quello che interessava agli operai. Era una ricerca partecipata. Alla fine trovammo che la cosa che interessava di più era il gioco delle carte. Divenimmo allora specialisti nel gioco delle carte, imparammo tutti i possibili giochi. E ogni sabato, ognuno di noi, andava a casa di uno degli operai dove si incontrava con altri cinque operai per giocare a carte. A volte io avevo le carte in mano e improvvisamente mentre ne giocavo una, senza guardare gli altri, domandavo: “Sapete cosa è successo a Madrid ieri?”. Dicevano: “No.” ed io: “Gli operai hanno fatto sciopero e sono stati violentemente aggrediti dalla polizia”. Ci fu silenzio. Anch’io restavo silenzioso. Dieci minuti dopo, altra carta altra domanda.
Durante la notte ci riunivamo di uno di noi cinque e valutavamo quello che era successo. Valutavamo come procedeva il nostro impegno politico.
Tre mesi dopo avemmo la prima riunione per discutere la politica della Spagna con sessanta operai.
Ecco qui termina il racconto dell’episodio e io vorrei fare mia la conclusione dell’operaio spagnolo per rispondere alla tua domanda. L’operaio spagnolo mi guardò e mi disse: “Il grande problema che abbiamo noi educatori popolari è sapere qual è il gioco del Popolo, se le persone sapessero qual è il gioco del popolo avrebbero la risposta.”
Pertanto in una società moderna come questa è ovvio che il gioco è un altro. Non può essere il gioco del contadino del Nord Est del Brasile, non avrebbe forse significato fare qui un circolo di cultura con codificazioni, immagini, diapositive, ecc che esplicitassero, per esempio, le relazioni primarie tra l’essere umano ed il mondo naturale. Dovreste partire piuttosto dalle tecnologie, dall’assenza di comunicazione, dall’enfasi nella trasmissione dei comunicati, dalla mancanza di curiosità, dalla paura della libertà. Ci sono tantissime tematiche che stanno all’interno di questo tipo di relazioni sociali.
Grazie!